Le differenze di disciplina tra la responsabilità contrattuale e la responsabilità extracontrattuale.
In genere la responsabilità è facilmente collocabile nell’ambito della responsabilità contrattuale o nell’ambito della responsabilità extracontrattuale, anche se non mancano i casi in cui appare difficile tale collocazione.
La distinzione di cui si tratta non ha un valore meramente teorico: la disciplina cui è assoggettata ciascuna sua forma presenta infatti connotati differenti, benché sussistono norme comuni quali l’art. 2056 c .c. che, in ordine alla determinazione del risarcimento, rinvia ai criteri dettati in tema di responsabilità contrattuale.
Peraltro, la chiarezza della distinzione parrebbe offuscata dal costante estendersi della sfera di responsabilità contrattuale, soprattutto quando si ponga attenzione agli artt. 1374 e 1375 c. c., che rispettivamente disciplinano l’integrazione del contenuto obbligatorio del contratto – relativa alle conseguenze derivanti dalla legge, o in mancanza dagli usi e dall’equità – nonché l’esecuzione secondo buona fede.
Pur presentando un nucleo di disciplina comune, per il fatto che in entrambi i casi il rimedio principale è costruito dal risarcimento del danno, le due forme di responsabilità soggiacciono a regimi profondamente diversi.
Le rilevanti differenze di disciplina che si sogliono ricollegare alla tanto discussa distinzione abbracciano l’onere della prova, la costituzione in mora, gli effetti giuridici relativi al risarcimento del danno ed il termine prescrizionale.
a) L’onere della prova
Indubbiamente diversa è la regola da applicare in tema di onere probatorio alle due figure di responsabilità.
Nell’illecito contrattuale l’art. 1218 c .c. pone una presunzione di colpa che cade solo quando il debitore provi che l’inadempimento è dipeso da causa a lui non imputabile.
La nozione di causa non imputabile ex art. 1218 c. c. si specifica a livello di applicazioni pratiche nel senso di evento esterno alla cerchia di attività del debitore e inevitabilmente con tutte le misure economicamente e ragionevolmente possibili, non solo con quelle suggerite dal parametro della diligenza ordinaria. La giurisprudenza esige l’esistenza di una specifica causa dell’impossibilità per liberare il debitore, e ciò comporta l’accollargli il rischio delle cause ignote. Ciò avviene anche nel campo extracontrattuale in seguito all’applicazione delle numerose presunzioni di imputabilità del danno e ad una concezione oggettiva del caso fortuito.
Tutto questo porta, relativamente a tale aspetto, ad un superamento della distinzione tra responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
La regola probatoria contenuta nell’art. 1218 c. c., ultimo inciso, deroga ai principi generali e comporta a carico del debitore la prova dell’assenza di colpa e a carico del creditore soltanto la dimostrazione dell’obbligazione preesistente e dell’inadempimento, cioè il solo elemento oggettivo.
Si avrebbe così in materia di prova della colpa contrattuale un’inversione dell’onere probatorio previsto dalle norme generali. Si tratta certamente di una presunzione relativa e da ciò deriva che il debitore può liberarsi da ogni responsabilità provando l’assenza di colpa e cioè che l’impossibilità di adempiere è derivata da causa a lui non imputabile.
Nella responsabilità da inadempimento è necessaria la dimostrazione del fatto dannoso e del nesso di causalità; non è invece richiesta la prova del collegamento della responsabilità al debitore che non avviene in virtù di un criterio da ricostruire successivamente all’evento dannoso, bensì grazie al riferimento all’obbligo primario e quindi, indirettamente, al titolo originario.
Il rapporto obbligatorio, infatti, identifica a priori i soggetti titolari de diritto e dell’obbligo di risarcimento. La colpa costituisce, così, solo lo strumento di valutazione della condotta dell’obbligato, il criterio di imputazione, ma non di collegamento, della responsabilità.
Secondo la dottrina più recente è sempre il creditore-danneggiato a dare la prova della colpa, intesa, quest’ultima, nell’accezione di omissione della condotta dovuta o di un’attività non conforme a quella dovuta, anche nel campo contrattuale. In altre parole la colpa del debitore non può ridursi alla negligenza che integra soltanto una delle forme di inadempimento. Ciò che cambia, dunque, non è la regola probatoria, ma è il concetto di colpa.
Nella responsabilità extracontrattuale, invece, la colpa dell’autore dell’illecito deve essere sempre provata da chi pretende il risarcimento, secondo la regola generale per cui chi fa valere un diritto deve provarne tutti i fatti costitutivi della sua pretesa (art. 2697 c. c.). Rimane a carico del danneggiato l’onere di dimostrare la ricorrenza del fatto illecito in tutte le sue componenti e quindi anche la colpa dell’autore (art. 2043 c. c.).
Nella responsabilità aquiliana ciò implica la prova del fatto dannoso, del nesso di causalità e della colpa che costituisce, insieme, criterio di collegamento e di imputazione, strumento di individuazione del responsabile e di valutazione della sua condotta.
Nel campo extracontrattuale la nozione di colpa conserva un connotato psicologico e comporta un giudizio individualizzato, che tiene maggiormente conto delle capacità personali del danneggiante. Nel campo contrattuale, dove il concetto di colpa equivale a negligenza, la colpa stessa si specifica in relazione ad un modello astratto, e quindi ad un parametro oggettivo. Ma tale differenza tra le due forme di responsabilità non è di disciplina ma di struttura. In entrambe il fatto costitutivo del diritto al risarcimento del danno deve essere provato da colui che vuol far valere il diritto al risarcimento ovverosia dal creditore e dal danneggiante. Sulla base di tale constatazione le differenze sembrano attenuarsi.
La formula dell’art 1218 c. c. che addossa al debitore l’onere di provare la causa non imputabile dell’impossibilità di adempiere, finisce di avere la stessa portata applicativa delle numerose presunzioni di imputabilità previste in tema di responsabilità extracontrattuale.
Si può osservare, sul versante della responsabilità aquiliana, che talvolta la prova dl criterio di imputazione del fatto dannoso sfuma , in via applicativa, per l’uso di tecniche giurisprudenziali destinate ad evitare troppo onerose dimostrazioni di colpa del danneggiante.
Interventi giurisprudenziali relativi all’interpretazione dell’art. 2043 c .c., hanno condotto importanti settori della responsabilità per colpa ad una responsabilità presunta per semplice difetto o errore. In questi casi, la giurisprudenza opera una presunzione di colpa del danneggiante che sembra dar luogo ad una vera e propria inversione dell’onere della prova.
In virtù di tale considerazione appare più agevole istituire presunzioni di colpa aquiliana piuttosto che ricercare nella responsabilità da inadempimento fittizie inversioni dell’onere della prova; tanto più quando la necessità di tutela si accompagni all’esistenza di specifici obblighi diretti ad invocare una maggiore protezione insita nel regime di responsabilità debitoria.
Ma a prescindere dai vari orientamenti dottrinali, in sintesi si può affermare che in materia extracontrattuale, la regola è che l’attore ha l’onere di provare il fatto illecito. Vale a dire, non solo l’evento dannoso ma anche la colpevolezza (dolo o colpa) nella condotta dell’autore del danno ed il relativo nesso causale.
Nella responsabilità contrattuale, invece, all’attore è sufficiente provare il preesistente rapporto giuridico da cui deriva il suo diritto di credito ed è sul debitore convenuto in giudizio che ricade l’onere della prova di dimostrare – se vuole andare esente da responsabilità – che l’inadempimento dell’obbligazione sia dovuto a causa a lui non imputabile (1218 c. c.): vi è un’inversione dell’onere della prova.
b) La costituzione in mora
Notevoli differenze strutturali tra le due forme di responsabilità emergono anche se si fa riferimento all’istituto della mora.
Tale istituto nella responsabilità contrattuale non opera mai automaticamente al ritardo, potendo configurare una tolleranza del creditore al ritardo, infatti l’art. 1219 c. c. – con le relative eccezioni – stabilisce che “il debitore è costituito in mora mediante intimazione o richiesta fatta per iscritto”, tanto che si parla di mora ex persona. Tale norma esclude espressamente la necessità di una richiesta che invece può essere necessaria ai fini dell’interpretazione del ritardo nell’adempimento di un’obbligazione preesistente. Tale previsione di mora automatica trova le sue ragioni nell’idea dell’ammissibilità di una presunzione di tolleranza del ritardo da parte del danneggiato da fatto illecito.
Rimane il fatto che nel campo delle obbligazioni contrattuali ove i danni per il ritardo decorrono dalla intimazione o dalla scadenza del termine non sussiste l’esigenza sostanziale che ha suggerito la previsione dell’art. 1219, comma 2°, n. 1, c. c., e cioè, quella di assicurare al danneggiato un risarcimento integrale anche nell’ipotesi in cui trascorra molto tempo dal fatto illecito alla liquidazione del danno. Come è noto, l’art. 1219, comma 2°, n. 1, c. c. limita la detta automaticità alle sole obbligazioni extracontrattuali.
Il riferimento esplicito al fatto illecito contenuto nella disposizione in esame impedisce, d’altronde, l’estensibilità della regola al danno contrattuale.
Diversamente dall’ipotesi di responsabilità contrattuale in quella extracontrattuale l’istituto della mora opera ex re ovvero automaticamente in quanto non è possibile al contrario ammettere alcuna tolleranza.
Emerge da quanto detto – ed è quello che più conta – che le differenze relative all’istituto della mora non caratterizzano i due tipi di responsabilità, essendo considerate superflue dalla legge stessa, in certi casi addirittura un’iniziativa del creditore (art. 1219, n. 3, c. c.).
c) Il risarcimento del danno
Anche in tema di valutazione del danno si riscontrano differenze di disciplina fra i due tipi di responsabilità.
Come si è anticipato a livello di premessa, nell’ipotesi di danno extracontrattuale, alla enorme varietà delle fattispecie di illecito fa riscontro la difficoltà di individuare in capo al danneggiato schemi astratti di comportamento rilevanti ai fini dell’art. 1227 c. c., e di elaborarne una classificazione tipologica altrettanto generale rispetto a quella proposta con riguardo alla inesecuzione del contratto. Inoltre, l’onere di intervento del danneggiato è in questo caso sensibilmente attenuato, rispetto all’ipotesi di responsabilità contrattuale, dalla assenza di ogni precedente relazione o contatto fra le parti.
Le differenze attengono, relativamente a tale punto, peraltro, ad aspetti di importanza secondaria, posto che le norme principali in materia sono richiamate espressamente dall’art. 2056 c. c. anche nel campo dell’illecito extracontrattuale. Infatti, l’art. 2056 c. c., disciplinante la valutazione dei danni in ambito extracontrattuale, richiama al comma 1° le disposizioni degli artt. 1223, 1226 e 1227 c. c., relativi rispettivamente alla configurazione del risarcimento del danno emergente e del lucro cessante in quanto conseguenza immediata e diretta, alla valutazione equitativa del giudice in mancanza della possibilità di provare il danno nel suo esatto ammontare, alla proporzionale diminuzione del risarcimento dovuto per concorso colposo del creditore nonché, infine, all’esclusione del diritto al risarcimento per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza.
Gli artt. 1223 e 1227 c. c. sono disposizioni destinate ad incidere entro l’area del danno “diretto ed immediato” al fine di circoscrivere le conseguenze di cui l’autore dell’evento dannoso non è tenuto a rispondere.
La questione cui preme assegnare una risposta è se l’art 1223 c. c. sia disposizione destinata a disciplinare in linea generale il rapporto tra comportamento ed evento, e quindi l’imputazione causale del fatto illecito al suo autore (in sostanza ad individuare il responsabile); o se piuttosto non si tratti di un criterio normativo di quantificazione del danno risarcibile, relativo al nesso fra evento dannoso e conseguenze ulteriori; di un criterio, cioè, rivolto a scriminare le conseguenze pregiudizievoli di un fatto lesivo addossabili al soggetto (già individuato, in base ad altre norme, come) responsabile da quelle ritenute irrisarcibili per valutazioni di opportunità pratica.
La seconda opzione si giustifica e si impone in primo luogo alla luce della ricostruzione delle origini storiche della disposizione. La matrice dell’art. 1223 c. c. è stata inizialmente elaborata in ambito contrattuale, laddove l’avvenimento produttivo di danno (inadempimento imputabile al debitore) è dato per presupposto, e non si pongono problemi di accertamento della responsabilità, ma si tratta esclusivamente di limitarne la misura, circoscrivendola ad alcune soltanto fra le conseguenze pregiudizievoli materialmente connesse all’inadempimento. Solo mediante il rinvio contenuto nell’art. 2056 c. c. l’operatività del principio per cui il risarcimento va limitato al solo danno qualificabile come “conseguenza immediata e diretta” è stata stesa alla materia extracontrattuale. Ma i criteri finalizzati all’individuazione del piano della imputazione del danno e della sua rilevazione quantitativa non sono contenuti nell’art. 1223 c. c. ma rimangono distinti, in quanto disciplinati da norme differenti. Più precisamente, si tratterà dell’art. 1218 c. c. e dell’art. 1227, 1° comma, c. c. per quanto concerne l’inadempimento delle obbligazioni; degli artt. 40, 41, 45 c. p., degli artt. 2043 e ss. c. c. e nuovamente dell’art’art. 1227, 1° comma, c. c. per quanto attiene all’illecito extracontrattuale.
Diverso (anche se sovente, in materia extracontrattuale, inevitabilmente intrecciato con questo) è invece il problema della determinazione della misura dell’obbligazione risarcitoria.
L’art. 1223 c. c. attiene alla determinazione del quantum di risarcimento dovuto, in base alla tecnica di selezione fondata sul criterio legislativo di “consequenzialità immediata e diretta”. In pratica, mediante tale disposizione il legislatore ha inteso risolvere, piuttosto che un problema di imputazione causale del danno, o di individuazione della catena eziologica giuridicamente rilevante, un problema di limitazione del risarcimento. Quest’ultimo andrà sempre e comunque circoscritto alle sole conseguenze normativamente qualificate come “immediate e dirette”.
La irrisarcibilità dei danni evitabili dal creditore – danneggiato trova il suo diretto referente normativo entro il nostro ordinamento nella previsione generale dell’art. 1227 c. c., intitolato al “concorso del fatto colposo del creditore”, e applicabile, in virtù del rinvio operato dall’art. 2056 c. c. , anche alla responsabilità aquiliana.
Il capoverso dell’art. 1227 c. c. esclude la risarcibilità di quei danni che, pur potendosi definire conseguenza immediata e diretta dell’inadempimento o dell’illecito aquiliano ai sensi dell’art. 1223 c. c., il creditore danneggiato avrebbe potuto evitare mediante l’uso dell’ordinaria diligenza.
Va constatato come la ratio e il fondamento logico dei due commi in cui si articola l’art. 1227 c. c. sono del tutto autonomi e differenti.
Il primo comma è senz’altro riconducibile alle regole in materia di causalità, dato che riguarda la particolare ipotesi in cui il fatto del creditore-danneggiato abbia concorso sotto il profilo eziologico a produrre l’evento dannoso, vale a dire l’inadempimento dell’obbligazione, oppure la lesione di un interesse protetto che integra la fattispecie di illecito civile. In tal caso, si prospetta una ripartizione di responsabilità fra l’autore del fatto produttivo di danno ed il danneggiato, in applicazione di un criterio analogo a quello contemplato dall’art. 2055 c. c., in relazione al concorso di soggetti nella produzione dell’illecito. Solo che qui il criterio di ripartizione fondato sulla gravità delle rispettive colpe e delle conseguenze derivate gioca nel senso di impedire che il danneggiato possa ripetere quella porzione di danno che egli stesso si è cagionato e che pertanto non rappresenta un danno ingiusto.
Nell’ipotesi contemplata dal 2° comma dell’art. 1227 c. c., si presuppone invece che l’evento dannoso (inadempimento, illecito aquiliano) si sia già prodotto e sia addebitabile per intero, sotto il profilo causale, al debitore- danneggiante.
D’altro canto l’art. 2058 c. c. che consente al danneggiato di chiedere la reintegrazione in forma specifica e la disposizione dell’art. 2056 c. c., secondo cui “il lucro cessante è valutato dal giudice con equo apprezzamento delle circostanze del caso”, sono considerati comunemente l’espressione di principi generali comuni alla responsabilità contrattuale.
E anche l’art. 2059 c. c., che costituisce una norma di chiusura nel circoscrivere la risarcibilità del danno morale, non può dirsi discriminante dal punto di vista teorico: vero è soltanto che è quasi inesistente, nel nostro sistema giurisprudenziale, il riconoscimento del risarcimento di un danno morale commesso a inadempimento contrattuale.
c-bis) I danni risarcibili: danni prevedibili ed imprevedibili
E’ agevole notare, in queste breve excursus dei criteri di risarcimento del danno da inadempimento contrattuale, richiamati dall’art. 2056 c. c., la mancanza dell’ulteriore criterio della prevedibilità del danno di cui all’art. 1225 c. c., secondo il quale il risarcimento è limitato ai danni prevedibili nel tempo in cui è sorta l’obbligazione ove l’inadempimento o il ritardo non dipendono dal dolo del debitore. Tale limitazione, che vale a consentire al debitore di valutare preventivamente i rischi connessi a tutte le vicende, anche patologiche dell’impegno contrattuale che assume, non avrebbe senso nell’ambito della responsabilità aquiliana.
Ciò spiega il disposto dell’art. 2056 c. c., il quale, mentre rinvia per la quantificazione del danno risarcibile ex art. 2043 c. c., alle regole poste in tema di responsabilità da inadempimento, omette di richiamare giusto l’art. 1225 c. c..
Si tratta di una tecnica di selezione il cui scopo fondamentale va ravvisato nella esigenza di proporzionare il sacrificio economico del debitore entro i limiti del rischio specifico di danno volontariamente assunto con il rapporto contrattuale e con la relazione particolare che a questo accede, ancorando il risarcimento al normale (preventivabile) valore di utilizzo che la prestazione inadempiuta riveste per il creditore.
In buona sostanza, “prevedibile” può definirsi quel danno che realizza la lesione dell’interesse base sia con riguardo alla comune esperienza, sia in relazione alle concrete e specifiche circostanze del caso note o riconoscibili con l’ordinaria diligenza alla parte inadempiente.
Sicchè la limitazione ai danni prevedibili fissata dalla norma appena richiamata, non si applica all’illecito extracontrattuale; con riguardo a quest’ultimo la valutazione del danno risente piuttosto dell’esatta configurazione del criterio di causalità tra l’atto e l’evento dannoso.
Pertanto, con riguardo alla valutazione del danno, può dirsi che nella responsabilità extracontrattuale vanno risarciti tutti i danni siano essi prevedibili o non prevedibili, invece in quella contrattuale ciò vale solo quando si ravvisi il dolo, in caso contrario sono da risarcire solo i danni prevedibili al momento in cui è sorta l’obbligazione.
Il legislatore, con riferimento all’entità del risarcimento nella responsabilità contrattuale ex art. 1225 c. c., prevede che se l’inadempimento o il ritardo ( c . d. inadempimento parziale) non dipende da dolo del debitore “il risarcimento è limitato al danno che poteva prevedersi nel tempo in cui è sorta l’obbligazione”, imponendo un limite ben definito derivante dall’elemento psichico; in altri termini, seppure nell’ambito della responsabilità contrattuale e con riferimento all’an, il legislatore non sembra far riferimento all’elemento psichico della colpa o del dolo (nell’art. 1218 c. c. si parla di inadempimento e/o ritardo derivante dall’impossibilità della prestazione per causa “ non imputabile al debitore), con riferimento al quantum debeatur l’elemento psichico assume fondamentale importanza.
La prevedibilità del danno, anche in tema di quantum debeatur, non assume pertanto lo stesso rilievo nell’ipotesi extracontrattuale.
La regola di risarcibilità dei soli danni prevedibili in caso di inadempimento, non dipendente da dolo del debitore, appare motivata, all’interno dell’art. 1225 c. c., dal collegamento dell’obbligo risarcitorio con l’obbligo primario.
La norma espressamente fissa la prevedibilità del danno al “tempo in cui è sorta l’obbligazione” con evidente riferimento all’obbligazione originaria rimasta inadempiuta.
L’art. 1225 c. c. non è richiamato, come già sopra detto, dall’art. 2056 c. c., norma di collegamento tra le due aree di responsabilità, e non a caso: nella responsabilità aquiliana il riferimento temporale ad un obbligo primario non avrebbe alcun senso. Il carattere derivato della responsabilità debitoria diviene, tuttavia, irrilevante quando l’inadempimento dipenda da dolo: allora il collegamento tra obbligo primario e obbligo risarcitorio si spezza e viene esclusa ogni limitazione dei danni risarcibili.
E’ stato suggestivamente affermato che << un inadempimento doloso costituirebbe sempre un illecito, extracontrattualizzerebbe sempre, cioè, la responsabilità >>.
La regola che impone al debitore il risarcimento dei danni imprevedibili in presenza di un inadempimento doloso ha un evidente carattere sanzionatorio: interpretarla come una sorta di trasformazione della responsabilità debitoria in responsabilità aquiliana significa implicitamente dare per presupposto che quest’ultima costituisca tuttora la sanzione civile di un comportamento riprovevole.
Tale poteva essere la visione dell’illecito aquiliano che il legislatore del 1942 aveva ereditato dalla tradizione ottocentesca: in tal senso si spiega, probabilmente, l’assenza dell’art. 1225 c. c. tra le norme richiamate dall’art. 2056 c. c., con la conseguente esclusione, in area aquiliana, della limitazione dei danni risarcibili ai soli danni prevedibili.
E’ certamente vero che il legislatore del 1942 non poteva ignorare il dibattito sulla portata applicativa del precedente legislativo dell’art. 1225 c. c.: diversamente, l’art. 1228 c. c. del 1865 non offriva lo stesso argomento letterale.
Pertanto, il mancato richiamo dell’art. 1225 c. c., nella sede dell’illecito, potrebbe ritenersi l’effetto di una consapevole scelta legislativa e, cioè, di una presa di posizione tra tesi contrastanti. E, d’altronde, anche ad attenersi alla ricostruzione della volontà storica del legislatore, che è solo uno dei criteri possibili di interpretazione della legge, la formulazione dell’art. 1225 c. c. vig. contiene, rispetto al precedente testo legislativo (art. 1228 c. c. abr.), una variante da cui possono trarsi argomenti a sostegno dell’estensibilità della norma ai danni da fatto illecito.
La disposizione precedente riferiva la limitazione del risarcimento dei danni prevedibili al “tempo del contratto”, la disposizione attuale la riferisce invece “al tempo in cui è sorta l’obbligazione”.
La nuova dizione consente, dunque, più agevolmente di estendere la regola anche all’area extracontrattuale, oltre che all’area degli inadempimenti ad obbligazioni ex lege, perché cancella la traccia dell’originaria formulazione della teoria della prevedibilità del danno.
La responsabilità per fatto illecito si è tuttavia affrancata, nel corso della sua evoluzione più recente, dal suo originario significato sanzionatorio, per assumere una sempre più chiara funzione riparatoria della lesione di interessi meritevoli di tutela: una trasformazione così netta non poteva non incidere sulla lettura delle norme più strettamente legate all’antica concezione. E infatti, nell’interpretazione giurisprudenziale, si è chiaramente configurata una sorta di limitazione implicita dai danni risarcibili, in contrasto con l’inapplicabilità dell’art. 1225 c. c. in area aquiliana. L’art. 2056 c. c. e il mancato richiamo dell’art. 1225 c. c. sono stati aggirati attraverso un’interpretazione complessiva della formula dell’art. 2043 c. c., dove i vari elementi dell’illecito sono destinati ad interagire: la valutazione della colpa, del nesso di causalità e dell’ingiustizia del danno si integrano e si influenzano reciprocamente. D’altra parte, anche da parte di studiosi della responsabilità extracontrattuale, ci pervengono di recente indicazioni nel senso che l’illecito doloso sarebbe caratterizzato, rispetto a quello colposo, da un rafforzamento del risarcimento del danno esteso anche a pregiudizi indiretti e al rimborso di utili. Tutto ciò serve a dire che ricorrono ragioni penetranti che possono suggerire l’estensione della disciplina dettata dall’art. 1225 c. c. anche all’area extracontrattuale.
La giurisprudenza è giunta ad un risultato equivalente grazie a questa valutazione combinata: il criterio di prevedibilità è stato adottato per accertare l’idoneità dell’evento a produrre il danno e l’impossibilità di prevedere l’evento è divenuta indice di mancanza di colpa con conseguente esclusione della responsabilità.. In tal modo l’obbligazione risarcitoria da illecito aquiliano acquisisce un limite analogo a quello previsto per la responsabilità del debitore.
L’interesse che costituisce il presupposto del credito resta sempre lo stesso e resta ugualmente insoddisfatto; l’interesse del creditore che rileva successivamente all’inadempimento e che viene tutelato attraverso la responsabilità debitoria, non muta a seconda che l’inadempimento sia stato doloso o colposo. L’estensione dei danni risarcibili, in presenza del dolo del debitore, non costituisce quindi uno strumento di tutela del creditore, ma una reazione al comportamento dell’obbligato.
Interpretata in questi termini, l’eccezione alla regola di cui all’art. 1225 c. c. richiede, per la risarcibilità dei danni imprevedibili, un comportamento del debitore qualificato dall’intenzione di non adempiere, dovendosi escludere la rilevanza della colpa grave e la possibilità di equipararla al dolo. Sembra più eccessivo interpretare la nozione di dolo, cui l’art 1225 c. c. fa riferimento, in senso diverso e più rigoroso rispetto al dolo generico, e richiedere invece il dolo specifico del debitore al momento in cui è sorta l’obbligazione; è sufficiente, per aprire la via alla risarcibilità dei danni imprevedibili, la consapevolezza di dover fornire una data prestazione e l’intenzione di non eseguirla.
Per l’inadempimento doloso, in conclusione, è prevista una misura sanzionatoria che può trovare un parallelo non già nell’illecito aquiliano, bensì in un illecito doloso, per il quale può essere esclusa a priori la valutazione in termini di imprevedibilità dell’evento, che consente di limitare i danni risarcibili ex art. 2043 c. c.. Sia per l’inadempimento che per il fatto illecito dolosi, si potrebbe configurare, inoltre, un’ulteriore estensione dell’area dei danni risarcibili, in presenza dei presupposti per l’applicabilità dell’art. 2059 c. c..
In definitiva non sembra trattarsi di una differenza tra i due tipi di responsabilità, contrattuale ed extracontrattuale, ma dell’emersione di un principio generale che non ha alcuna attinenza con la distinzione in esame.
Secondo alcuni, la formulazione dell’art. 1225 c. c. consentirebbe, nonostante il suo mancato richiamo ad opera dell’art. 2056 c. c., l’estensione della norma anche all’illecito aquiliano sulla base della sussistenza dell’identità di ratio.
d) I termini di prescrizione
Una differenza di disciplina inequivocabile, ma contraddittoria ed opinabile, è rappresentata dalla diversità dei termini di prescrizione previsti per i due ordini di responsabilità. Tale differenza è quella più rilevante sul piano applicativo e quella per cui più sovente si è posta la questione della determinazione precisa dell’area della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale.
In generale, in materia di responsabilità debitoria, il diritto al risarcimento è caratterizzato da un termine più lungo di prescrizione, quello ordinario di dieci anni (art. 2946 c. c.), che rende la posizione del danneggiato più favorevole che nella responsabilità aquiliana, dove il diritto al risarcimento del danno è soggetto al più breve termine di prescrizione di cinque anni (art. 2947, comma 1).
Le differenze quanto ai termini di prescrizione nei due casi appaiono come divergenze specifiche di regolamentazione non superabili in via ermeneutica, ma non sempre giustificabili.
Se altri profili distintivi della responsabilità da inadempimento e della responsabilità aquiliana appaiono coerenti con l’assenza di uno specifico obbligo primario, i profili di attuazione della riparazione del danno dovrebbero rispondere ad una logica unitaria. In questo senso, le differenze dei termini di prescrizione nei due ordini di responsabilità appaiono meri accidenti normativi. L’azione diretta a ottenere il risarcimento si presta così ad essere spostata da un terreno di responsabilità all’altro per evitare le conseguenze sfavorevoli di una prescrizione più breve.
A ben vedere, la diversità dei termini di prescrizione costituisce l’unica ragione in grado di spiegare artifici normativi diretti a ricondurre al contratto terreni naturalmente riconducibili alla responsabilità aquiliana.
Una volta ridimensionate le discriminazioni legate all’onere della prova e all’area dei danni risarcibili, l’unica vera ragione in grado di spiegare la contrattualizzazione di vaste aree di responsabilità aquiliana risulta essere il più ampio termine generale di prescrizione dell’azione risarcitoria del danno da inadempimento.